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Archive for giugno 2013

Edward Munch: L'urlo della modernità


La Norvegia quest'anno celebra i 150 anni dalla nascita dell'"eroe nazionale" Edward Munch, pittore norvegese la cui fama nasce intorno al suo più famoso e osannato dipinto, "L'urlo" (1893), la cui terza versione è stata battuta all'asta da Sotheby's alla modica cifra di 120 milioni di dollari.

E pensare che "L'urlo" fu il momento peggiore della sua esistenza, la sintesi dell'angoscia, della depressione e della paura che lo tormentarono tutta la vita, come egli stesso ci scrive in uno dei suoi numerosi diari. 

Le iniziative dedicate al grande artista si snodano lungo tutto il 2013 (http://www.munch150.no/it/) e, attraverso la realizzazione del film "Exhibition", le due più importanti mostre realizzate nella Galleria Nazionale e nel Museo Munch di Oslo rivelano il lavoro dei curatori e le ragioni del percorso espositivo che mira a mettere in luce aspetti innovativi e sconosciuti della tecnica, dei temi e degli scopi della pittura munchiana.
Unico giorno utile per vedere il film giovedì 27 giugno 2013 nei cinema convenzionati. Mi sono detta: "Occasione imperdibile" e, trovata una compagna di avventure, mi avvio verso questa nuova esperienza. Non sapevo cosa aspettarmi da una mostra su grande schermo e non sapevo quale sarebbe stato il mio grado di conoscenza rispetto ad un pittore che la nostra tradizione scolastica e universitaria pone sempre ai margini degli studi. 

Sala semivuota (8 persone), posti centrali, musica di sottofondo e... si comincia. 
Ed eccoli i luoghi di Munch. Quella Norvegia definita desolata, angosciante, tutt'altro mondo rispetto alla Parigi di quegli anni, caratterizzata da colori fulgidi, animi libertini e colta in quell'attimo fuggente.
E si, perché Munch nasce nel 1863, l'anno in cui Manet realizzava "Dejeneur sur l'erbe", il dipinto che segna l'epoca dell'impressionismo. E attraversa i due secoli, tra neoimpressionismo, surrealismo e simbolismo, seguendo una pittura che si fa sempre più astratta, sempre più criptica, sempre più ripiegata su se stessa. Muore al culmine del secondo conflitto mondiale (1944) in un piccolo villaggio della Norvegia, solo e angosciato, vinto (dopo essersi strenuamente battuto) da una malattia, la tubercolosi, che fu il trait d'union di tutta la sua vita.
Il realismo acuto che caratterizzava le sue opere, negli anni va scemando verso una pennellata sempre più irregolare, sempre più cromaticamente confusa e sempre più alienante. 
Sarà per questo che resta "un emarginato" della pittura moderna?
Dopo aver visto il filmato e il racconto della mostra, dopo aver quasi assaporato i luoghi e le persone che lo hanno accompagnato devo ammettere che si è formata un'altra idea nella mia testa, già balenata durante gli studi di psicologia dell'arte: la sua grandissima forza morale. 
Munch e la sua pittura sono uniti indissolubilmente, come mai forse è accaduto nella storia dell'arte.
Le sue opere sono il manifesto di una vita caratterizzata dalla malattia e dalla morte. La sua famiglia fu sterminata dalla malattia (madre, sorella e padre) e questi dolori ne condizionarono fortemente la sua visione delle cose e il suo pensiero.
In mostra per la prima volta dopo il 1902, anno in cui lo espose a Berlino, il "Fregio della vita" viene composto come Munch lo aveva immaginato. Una serie di dipinti, tra cui i celeberrimi "Madonna" e "L'urlo" raccontano la vita secondo Munch, caratterizzata da 4 fasi, che vanno dalla nascita alla morte e si chiudono con "Metabolismo", ad indicare al ciclicità di questo grande mistero che metabolicamente una forza superiore, chissà quale Dio, continua a proporre, quasi fosse una danza macabra (come non pensare a "La danza della vita"?). Alla vita succede la morte e dalla morte nasce la vita (da notare che l'albero della vita ha come radici i teschi).
Superstizione medievale che rinasce nel pensiero novecentesco di Munch. L'uomo e il suo fardello fulcro della riflessione artistica. Visionario, certo, ma non emarginato.
Metabolismo 1899

Al centro di tutto c'è l'amore, vincolo tra uomo e donna e origine del male, dell'ansietà. Munch vive profondamente questo rapporto atavico con il sesso e la morte. Eros e tanatòs si intrecciano fino a diventare un urlo gigantesco. Visto così, "L'urlo" diventa una fase della vita, il momento in cui l'uomo è sopraffatto dalla natura delle cose e ne scarica tutto il peso attraverso una forza interiore che non tutti sono capaci di tirare fuori. Sarà forse questa inconscia consapevolezza che ha reso il dipinto un'icona?
Ed è qui che vedo la sua grandezza: nella capacità di resistere, nonostante tutto. Egli vive, autolesionandosi, tutta l'esistenza con le sue ombre, le sue paura e la sua depressione.
Eppure realizza due opere che hanno illuminato il mio pensiero e che credo siano la massima espressione del genio di Munch che gli farà vincere i secoli. La prima è "Il sole", realizzata per l'Aula Magna dell'Università di Oslo tra il 1909 e il 1916, negli anni in cui Picasso con "Le Demoiselle d'Avignòn" sconvolge la pittura mondiale. 
In questo dipinto, realizzato su un'enorme tela cucita a mano dalla sua domestica, Munch dichiara che la luce del sole è il motore della vita e, visto il luogo, della conoscenza. E questa luce è anche simbolo, come tutto nella sua pittura, di una forza, di una speranza che guida l'uomo nell'affrontare il grande mistero che lo accompagna fin dalla nascita: la morte. 
Il Sole, 1909-1916

Ed egli stesso condensa questo pensiero in una della sue ultime opere: "Autoritratto tra l'orologio e il letto". Lui, vecchio e malato con faccia fiera affronta il letto, simbolo della sua imminente morte dopo aver vinto il tempo, indicato dall'orologio senza le lancette.
Lo definirei un testamento, un monito affinchè guardando quel volto e quella stanza (che a tratti ricorda la camera di Van Gogh) tutti ci potessimo sentire fieri di resistere e di fare della propria sofferenza un'arte.
Lui c'è riuscito e nonostante tanta amarezza e tanto dolore, mi trasmette un'enorme invito alla vita. 

Autoritratto tra l'orologio e il letto 1940-42

Merita un viaggio ad Oslo e merita maggiore attenzione dalla critica perché la sua arte è l'apologia del nostro tempo e la celebrazione dell'uomo contemporaneo che vive costantemente nel cambiamento. 
Egli trova la cura a tanta instabilità e ce la propone tra un urlo disperato e un sole raggiante. 

Affittasi opere d'arte italiane in ottimo stato (forse)

Opere d'arte in affitto... detta così sembra un'eresia per il bel paese. 
Eppure questa è una delle proposte di decreto del governo Letta, ancora da approvare.

Noi che abbiamo il David e il Colosseo ci mettiamo in vendita... siamo pazzi? 
Le Sm-art People però vi chiedono: qual'è l'alternativa per i beni "custoditi" nei depositi?
Si metta in fila davanti al parlamento chi ha la soluzione.

Affittare il nostro patrimonio ai paesi stranieri non è certo un modo per salvare la nostra economia e soprattutto la nostra noncuranza del patrimonio, ma potrebbe essere un'opportunità dai risvolti positivi. 
Riflettiamoci insieme. 
A costo zero e senza nulla togliere alle collezioni museali che raramente programmano la rotazione delle opere e che non hanno spazi (e fondi) per renderle pubbliche e/o visitabili in percorsi espositivi periodici, potremmo avere un introito da destinare ai restauri, alla conservazione e alla crescita del personale per le attività dei musei. 

Aggiungiamo poi l'enorme ritorno in immagine. Musei come il British di Londra e il Rijksmuseum di Amsterdam hanno dimostrato come rendere visibili e fruibili (online e offline) le loro collezioni abbia portato ad  un aumento di visitatori di oltre il 30% ed un coinvolgimento delle istituzioni cittadine per la valorizzazione dell'intera città: ad Amsterdam adesso si va anche solo per Cultura (!!) e si parla di marketing e rivalutazione su scala urbana!
Perché, dunque, non portare all'estero l'arte italiana, garantendole tutela, conservazione e una giusta collocazione? Il provvedimento prevede infatti dei vincoli per gli eventuali affittuari, in primis garantire alle nostre opere l'esposizione in spazi dedicati alla "cultura italiana".

Un'ultima riflessione, ancor più provocatoria: finora il destino dei depositi lo abbiamo mai considerato? 
Chi li difende da muffe, umidità, incuria, polvere? 
Chi sa effettivamente cosa c'è nei depositi? 
Esiste un archivio che li cataloga? 
Nei depositi si trova di tutto: solo dieci anni fa, al Museo Archeologico di Napoli, è stato ritrovata un'opera del Carracci tra le statue dell'epoca romana, non catalogato e lasciato lì, sul pavimento di un deposito.
E siamo pronti a denunciare e condividere lo stato di degrado di Pompei, la Reggia di Caserta, il Colosseo.. ma come proteggere tutto questo senza fondi e in tempo di crisi?

Questa allora potrebbe essere un'occasione di riscatto per una parte delle nostre opere, per avere un quadro più completo del nostro patrimonio e un modo per valorizzarlo. Si potrebbero finalmente utilizzare  competenze per catalogarlo, studiarlo e tutelarlo e potremmo avere un patrimonio in grado, in parte, di autofinanziarsi. Un patrimonio per ora percepito solo come un peso, un qualcosa di vecchio che si lusinga perché almeno per una volta, non ha subito altri tagli (Decreto del Fare, 17 giugno 2013).

Unico monito al governo (semmai qualche ministro leggerà queste parole) è quello di affidare questo lavoro, almeno in questa occasione, alle giuste competenze, a chi ha studiato per questo, preferibilmente giovani!!
E che questi soldi siano poi realmente destinati alla Cultura e al nostro patrimonio, non a rimpinzare le tasche degli  scialacquoni!

Italiani, dunque, priva di levarvi per un retorico impeto di orgoglio nazionale (soprattutto perché magari dietro l'angolo è appena crollato un cornicione di un edificio storico), riflettete sulle opportunità che un bene può offrire, senza svendersi, senza prostituirsi, ma semplicemente mettendosi in mostra per quello che è: un'opera d'arte, frutto della nostra storia, che per anni, se è stata fortunata, si è trovata imballata al buio in un deposito. 

Only the brave (solo il coraggioso)

Cultura, sempre lei. La parola di cui tutti facciamo sfoggio almeno dieci volte al giorno vantandoci della nostra cultura personale, della cultura di Dante che, diamine, era italiano o di quella di Da Vinci anche lui italiano e della bellezza che ci circonda, anch'essa italiana. 

Eppure cultura e Italia/italiano sembrano a tratti cozzare sia nella gestione specifica del settore sia nell'inserimento della Cultura nei piani di sviluppo economico nazionale. 
Siamo tutti degli ottimi oratori quando si tratta di vantare le gesta dei romani, però poi diamo a Ridley Scott la possibilità di fare di Decimo Meridio il protagonista di un suo film (e di farci un mucchio di soldi) mentre la tomba (vera) del gladiatore è lasciata all'abbandono sulla devastata via Appia.  

Qualcosa però si muove. Mi commuove ancora ripensare ad un ministro che vaga umilmente nella Reggia di Caserta armato di bicicletta e smartphone (mica auto blu e troupe della RAI?). O anche il rimembrar di una giornata, quella del 05 maggio 2013, che ha condotti noi storici dell'arte all'Aquila  per provare a ricominciare e per guardare con i nostri occhi attenti il disastro procurato. 
Allora la domanda sorge spontanea: cosa manca? Lo ripeto mille volte al giorno nella mia testa. Essendo una fagocitatrice di parole e di immagini sono partita da una riflessione frutto di questo tempo trascorso a romanzare immagini e immaginare parole: quello che rende unica la cultura è la capacità di perpetuare nel tempo un'idea. Sia essa una concezione filosofica o una prerogativa estetica, quell'idea è il cuore della cultura ed è il cardine delle rivoluzioni (culturali, s'intende). 
E qual'è l'idea delle idee? Cos'ha condotto uomini a battersi per un ideale? A ostinarsi nel proporre quel modo espressivo? Il CORAGGIO. Ecco: seduta davanti ad una finestra rigenerata dalla brezza estiva, provo a dire la mia. La cultura si fa con il coraggio.
Tutti noi dovremmo cominciare ad avere il coraggio di dire no di fronte alla retorica di cui ci cospargono; dovremmo cominciare a dire no all'umiliazione di regalare le nostre competenze; dovremmo renderci conto di avere in mano le chiavi del nostro futuro e di guardare al futuro come tutti i grandi prima di noi hanno fatto e alcuni continuano a fare.
Da dove comincia il Rinascimento? Dalla follia di un pittore che nell'umile chiesetta di Assisi sconvolse la pittura occidentale: Giotto. Il suo ciclo pittorico delle Storie di S. Francesco anno domini 1302 è l'atto primo della modernità. L'uomo è il centro attorno al quale si muove l'universo, compreso quello divino incarnatosi nella figura di san Francesco. Da lì si diffonde questo ronzio che diventa un urlo alla scoperta dell'America, anch'essa frutto di un folle, italiano, salpato a cercare le Indie. E poi c'è il più coraggioso di tutti, un certo Lorenzo de' Medici, il Magnifico, che crea un circolo di artisti e pone al centro della sua Firenze la conoscenza, creando un mito riconosciuto e diffusosi in tutto il mondo.
Da dove comincia il nostro "rinascimento"? Comincia da chi ci vuole credere, da chi è disposto a stare col naso all'insù per ammirare una cattedrale e perdersi nelle sue architetture o da chi sta chino alla scoperta di un tesoro archeologico. Comincia da chi analizza le opere d'arte e ne studia la materia come fosse un medico con un paziente ed è orgoglioso della sua professione. Comincia da chi se ne frega dell'accademismo e della belle parole e comincia a fare. Si comincia dal basso, dal proprio territorio e dall'immensa fortuna di avere una rete, una tastiera e uno spazio virtuale sui quali avere la libertà di esprimersi.
La libertà è coraggio e il coraggio è libertà ... di essere se stessi.
Se vogliamo che qualcosa cambi dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare ed essere pronti ad accogliere un ronzio, seguire il flusso delle nuove idee e non abbarbicarci sulle nostre convinzioni.
Il cambiamento è coraggio e il coraggio è il cambiamento.... delle cose.
Per capire il segreto e la forza della cultura non si deve partire dai piani economici o da ambiziosi progetti ingegneristici. Servono passione, competenza e lungimiranza. Cambiare la prospettiva, come fecero gli artisti rinascimentali, e tuffarsi in un nuovo oceano di conoscenza, partendo da chi la cultura la mastica. 
La passione è coraggio e con essa si può costruire un nuovo mondo della conoscenza. 
Per questo, only the brave. E le sm-Art people lo sono, ostinatamente lo sono. 

Il restauro degli affreschi in Santa Croce: valore, prestigio o vanità?

Grande successo, ma sopratutto approvazione, sta avendo la notizia dell'avvenuto restauro degli affreschi della Cappella Maggiore della Basilica di Santa Croce a Firenze. 
Le "Stigmate di San Francesco" di Giotto e la "Assunzione della Vergine" del Maestro di Figline, uno degli enigmatici collaboratori della bottega giottesca, sono stati restaurati dall'Opificio delle Pietre Dure grazie ad un accordo con l'Università giapponese di Kanazawa, e sopratutto grazie al contributo del professor Takaharu Miyashita, docente di storia dell'arte occidentale. 
Grande prestigio all'Italia per questa grande operazione di restauro, partita nel 2010 e conclusasi nel mese di marzo di quest'anno.

La verità è che non abbiamo proprio niente di cui vantarci, perché noi italiani non siamo stati capaci di tutelare questi affreschi e questa nostra eredità.
Ben vengano tutti i mecenati del mondo, tutti gli amanti dell'arte e della Cultura, ma perché noi italiani non siamo capaci di preservare il nostro patrimonio?
"Con la crisi chi si può permettere un restauro!"
Beh, ora sono veramente convinta che in tempi diversi ci saremmo mobilitati per la salvaguardia degli affreschi di Giotto!
Noi pensiamo che ciò che vediamo oggi sia immutabile nel tempo, non siamo in grado di percepire l'avanzare dell'età del nostro patrimonio perché da secoli presidia la nostra nazione. Trascuriamo i fattori ambientali, antropici, e non sentiamo la sofferenza dei nostri monumenti (che negli ultimi 200 anni hanno visto crescere esponenzialmente la velocità con cui il tempo lascia su di loro le sue cicatrici).
Non possiamo riportare i nostri capolavori a ciò che fu nel momento in cui fu creato: manchiamo della mano dell'artista creatore, del contesto storico, dell'ambientazione del tempo, e non vogliamo certo creare dei falsi!
Ma forse un pò del nostro senso di responsabilità verso le generazioni future potremmo smuoverlo. Se facessimo un parallelismo tra l'eredità materiale e quella culturale, per ora la direzione è quella di tramandare debiti, collezioni con qualcosa di rotto o mancante..
Cosa potremmo chiedere dunque alle nostre istituzioni ed ai nostri ministri? 
Io chiederei di rieducare e rieducarci al riconoscimento del valore che ci circonda: chi non ama il bello?
Forse solo chi non riesce a vederlo, a trovarvi un legame con se stesso.
Mi piacerebbe sapere che i privati possono contribuire al recupero del nostro patrimonio con donazioni libere e spontanee, anche tracciate se superano determinati importi, e che non solo le donazioni sociali, ma anche quelle culturali, possano usufruire di maggiori sgravi fiscali.
Vorrei infine che non si giochi  al ribasso su tutte le gare di appalto di restauro. La mia è utopia pura, ma non si può valutare il rapporto qualità/prezzo così come noi lo facciamo nel nostro quotidiano?
Far vincere il valore dell'economicità a discapito della qualità, non solo suona controproducente al solo leggere la frase a bassa voce, ma costringe chi vince gli appalti ad utilizzare materiali scadenti, o sottopagare i professionisti coinvolti. E non riesco a pensare quale delle due scelte sia migliore o peggiore. D'altronde, un professionista del settore culturale, non è un vero esperto, no? Per un servizio culturale di alta qualità non si può mica pagare quanto un servizio paragonabile  in qualunque altro settore... 
Ma è la nostra identità culturale che stiamo svendendo, come se i luoghi di cui abbiamo ricordi felici non avessero nessun valore nel nostro presente, come se ritornandoci noi non avessimo nessun legame, nessun "ma ti ricordi quando..", niente, nessun pensiero, come se per la prima volta nella nostra vita capitassimo lì.
Dobbiamo e possiamo credere che nulla possa invertire questa rotta?
Che il nostro patrimonio venga apprezzato e salvato dall'estero, mentre noi stiamo ad aspettare?

"La nazione che non conosce la bellezza
non è quella dove l'arte non è mai nata,
ma quella che ricca di capolavori
non è capace né di amarli, né di preservarli"
Dino Gavina

Digital economy: dov’è la Cultura?

Ieri prima presentazione pubblica del progetto Web Economy Forum (Wef) a Ravenna, un progetto di cultura digitale per le aziende delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. 
Il progetto sembra confermare che per ricostruire la produttività delle PMI bisogna partire dal basso, da un progetto di crescita collaborativa.
Negli ultimi mesi i media ci raccontano ancora la crisi, analizzano i numeri delle imprese e le notizie sono poco confortanti: a fronte del numero di imprese chiuse e aperte ogni mese in Italia, il saldo è drasticamente negativo, ma ripartire si deve, e si può! 

Il progetto Wef parte dai tre concetti di new economy: digital, internet e Web economy.
Un’ economy sottovalutata che vale il 4% del PIL, sconosciuta a gran parte delle PMI del territorio italiano.
Ma chi è attivo online riporta in media una crescita del 12% del business, del 34% del personale, e una produttività in crescita… lavorare per un'azienda che riesce a dare valore aggiunto al cliente, porlo al centro dell'attenzione, e chiudere in positivo in un periodo di decrescita economica come quello che stiamo vivendo, fa crescere l'autostima dell'imprenditore e dei suoi dipendenti, valore fondamentale per una buona produttività e per la qualità del lavoro!

Giuseppe Giaccardi, ideatore del progetto, nel suo intervento ha sottolineato come la congiuntura negativa che stiamo vivendo, purtroppo, porta all’espatrio dei nostri talenti a cui è difficile chiedere di tornare in Italia "perché non ci sono argomentazioni per riportarli indietro o tenerli qui". Amara e triste verità.
Nella crisi abbiamo bisogno di trasformarci e invertire la rotta.

Le parole chiave sono: ascolto, collaborazione, creatività, porosità, interoperabilità, partecipazione e innovazione sociale.

Webeconomy è visione, distruzione creativa.

Webeconomy è startup, rigenerazione delle industrie tradizionali.

Webeconomy è opportunità, cosmopolitismo, territorio innovativo.

Eppure c’è chi pensa che bisogna ripartire dalle nostre deboli istituzioni che tuttavia non sono in grado di sostenerci e proporci un’alternativa. Siamo noi dal basso a dover ricostruire la nostra nazione, diffondere la cultura della produttività collaborata, nelle PMI come nella Cultura.

Quando i settori produttivi ripartono dal Web per creare rete, sorge spontanea l’idea che questo possa funzionare anche nella Cultura.

E noi sm-Art People ci crediamo, da tempo ci crediamo.
Crediamo in una visione, in una stasi del settore culturale (che parte dalle istituzioni) che possa determinarne la rinascita, in competenze applicate al proprio settore di afferenza, al coinvolgimento del territorio per rafforzarne l’identità e tramandarne le tradizioni. Quelle tradizioni che stanno strette a molti, viste come retrograda reminiscenza di un passato da superare, vanno riviste come scrigno della nostra identità.

La Cultura da preservare con un’innovazione di processo, perché viva nel suo tempo, perché non rimanga a guardare il vortice delle evoluzioni Web, ma possa arrivare alle persone attraverso i processi Web, mobile e sociali che stanno rimodellando le nostre vite. 

Come possiamo smuovere un settore così "vincolato"?
Con un viaggio fatto di persone, di territori, di racconti.
Insieme condividere e tutelare la nostra cultura e la nostra identità con l'aiuto delle tecnologie che non possono più essere svincolate dalla nostra vita.
Le idee non mancano, ma le possibilità a volte sì.
Partiamo insieme per un nuovo viaggio, concediamoci una possibilità di trasformazione.



"Il vero viaggio di scoperta consiste
non nel trovare nuovi paesaggi
ma nell'avere occhi nuovi"
M. Proust

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